“Il nostro ordinamento non prevede che gli avvocati possono subire provvedimenti giudiziari per il semplice fatto di aver presentato atti e documenti nell’interesse dei propri clienti così come debitamente prescritto dal codice di procedura penale“. Così l’avvocato Nino Campisi commenta la recente sentenza emessa dal Giudice di Pace di Roma che lo ha condannato per il reato di diffamazione. La vicenda risale al 2017 quando i clienti del legale avolese, Desirè, Aurelio e Rosario Crapula, gli diedero mandato di sporgere querela nei confronti di Paolo Borrometi che, nel suo sito “La Spia” , aveva più volte parlato dei Crapula ma, secondo Campisi, il giornalista aveva diffuso fatti “privi di veridicità e di provvedimenti emanati dagli organi giudiziari“.
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"È del tutto inusuale che un avvocato, nell’esercizio della sua attività professionale, venga condannato per il reato di diffamazione semplicemente perché ha scritto un Esposto-Querela al fine di tutelare la onorabilità dei propri clienti" afferma Campisi , secondo il quale i Crapula "da persone incensurate venivano descritte dal giornalista Borrometi in modo del tutto difforme da quella che era la loro storia personale. I fratelli Crapula non sono stati mai coinvolti in processi penali, men che meno in processi connessi o collegati a quelli riguardanti il loro padre. I reati non si ereditano da padre in figlio pertanto non potevano continuamente essere messi nella gogna mediatica dal Dott. Borrometi".
L'avvocato avolese, oltre a rivolgersi alle autorità giudiziarie competenti, si è rivolto anche al Presidente della Repubblica, al fine di tutelare i diritti dei suoi assistiti. In sostanza, Campisi si difende affermando di avere semplicemente "svolto il proprio dovere di difensore, così come previsto dall’art. 24 della Costituzione e da tutte quelle norme proprie del Codice Deontologico, rispettando tutti quei doveri che la stessa norma impone ad un difensore".
Proprio per tale motivo, ha deciso di proporre appello e, inoltre, di informare il Consiglio Nazionale Forense e la Camera Penale di competenza per ciò che è accaduto, ritenendo tale fatto un attacco alla sua figura personale e alla classe forense in generale.
"Se qualcuno pensa che l’essere figli di una persona pregiudicata è un diritto ereditario commette lo stesso errore che commettevano i greci nel divertirsi durante le tragedie greche di Eschilo in cui vi era il “delitto del ghenos”, che le colpe dei padri, per forza di cose o di qualcuno, dovevano ricadere sui figli" conclude l'avvocato.
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